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Nei panni di mia moglie

"Nei panni di mia moglie" pubblicato da Editrice Nuovi Autori

Imago mortis - un'esca per la regina nera

"IMMAGO MORTIS- un'esca per la regina nera" pubblicato da Il Filo


Volevo solo essere famoso

di Andrea Saviano


I fatti che andrò a narrare si svolsero molti anni fa e fanno riferimento a un'epoca di grandi cambiamenti. Era da poco trascorso il dopoguerra e la televisione muoveva i suoi primi, incerti passi.

Io allora ero piuttosto giovane e pochi giorni prima avevo passato l'esame di stato. Avevo così dismesso i panni del semplice procuratore legale per indossare quelli dell'ambizioso avvocato penalista.

Rammento che all'epoca non capii bene perché fosse toccato ancora a me d'occuparmi del solito balordo, ma poi i fatti mi spiegarono molto di questa vicenda, di quella persona e delle cose che avevamo in comune.

Si trattò di un evento così condizionante per la mia vita che ricordo ancor oggi il fatto che era un venerdì e che la mia mente era già proiettata alla fidanzata e al fine settimana che avremmo trascorso insieme.

Quel giorno, quando entrai nello studio legale associato presso il quale stavo facendo praticantato, trovai un appunto sulla mia scrivania che mi avvertiva dell'intenzione da parte del socio anziano d'incontrarmi.

Pensai che la cosa fosse connessa con l'intenzione di presentarmi le sue personali congratulazioni per l'esame di stato brillantemente superato, invece mi trovai ad ascoltare un “sermone” nei miei confronti che all'epoca avvertii come piuttosto duro e ingiustificato. « Riccardo, è giunto per lei il momento di smetterla con il guardare » credo si riferisse al periodo di praticantato, « ed è iniziato quello in cui lei si dia da fare. Così, proprio per farle fare esperienza senza bruciarle le ali, i soci avrebbero deciso di affidarle un caso tanto facile, quanto disperato. Anche volendo, lei non potrebbe peggiorare la situazione del nostro cliente. »

Posta in questa maniera sembrava:

In altre parole, si trattava di uno di quei casi senza speranza in cui la sconfitta non sarebbe stata un demerito e qualsiasi cosa, che non fosse una disfatta, avrebbe dimostrato l'esistenza di una qualche mia capacità.

La vicenda era di quelle fin troppo lineari: un giovanotto che, nonostante fosse disoccupato, era dedito alla bella vita e, forse per questo motivo, aveva ammazzato un facoltoso parente per ottenerne l'eredità.

C'erano tante di quegl'indizi, testimonianze e riscontri a suo carico da seppellirlo letteralmente di prove. Al confronto una valanga sarebbe sembrata il più estivo tra i lenzuoli, eppure... c'è sempre un eppure in queste vicende. Un tappeto sotto il cui angolo si celano informazioni ed eventi sconosciuti ai più.

A questo punto della vicenda è utile introdurre una necessaria premessa etica. Il dovere di un avvocato penalista è quello di fare il vuoto morale dentro di sé, cioè di non esprimere giudizi sulla bontà o sulla cattiveria del proprio tutelato, ma di individuare tutti quei fatti in grado di demolire il castello probatorio dell'accusa o d'individuare tutti quegli elementi che potrebbero costituire delle attenuanti. Se il proprio tutelato è innocente, la strada da percorrere è semplice e praticamente rettilinea, ma quando in fase di colloquio il cliente ammette la propria colpevolezza ci s'infila in uno stretto e contorto vicolo di cui è difficile intravvedere la fine. Passando ai fatti che mi videro involontario protagonista, pochi giorni dopo quel discorsetto in ufficio mi trovai a prendere l'autobus della linea 12 per recarmi presso il vicino carcere. Lì, al terzo piano, nel braccio di massima sicurezza, conobbi l'assassino. Non vi dirò il nome, né le iniziali. Sappiate solo che era un giovanotto come se ne possono incontrare tanti per strada.

Nelle foto che lo avevano ritratto durante l'arresto m'era parso un pazzo criminale e per fare il vuoto morale dentro di me avevo rimosso quella pessima sensazione. Adesso – ripulito, rasato, sbarbato – sarebbe stato perfetto come qualcuno che, al massimo, del proprio passato avrebbe dovuto nascondere il fatto d'avere svolto la mansione di chierichetto.

Non eravamo nella sua cella e ciò mi rese l'animo più leggero, perché durante il praticantato m'era capitato spesso di dovere andare ad intervistare in cella alcuni criminali incalliti. Ovviamente, in questi casi lo studio legale non mandava a raccogliere la “biancheria sporca” i suoi “assi”, ma i “fattorini”.

Avevo pensato che adesso sarebbe stato diverso, adesso ero stato promosso a “capo fattorino” e, nelle mie attese, questo m'avrebbe dovuto concedere almeno qualche piccolo privilegio.

Invece, mi ritrovai in una stanza di due metri per tre con al centro un tavolo con più anni di quelli di matusalemme e due sedie sgangherate della medesima età. Un odore strano ed indistinto riempiva il locale. Un po' come accade con l'odore dei cavoli che si percepisce in alcuni vecchi appartamenti.

Né un profumo, né una puzza, ma decisamente e nitidamente un odore insolito.

« Buongiorno avvocato, » fu la frase d'esordio del mio assistito quando varcai la soglia.

« Se ha bisogno di me, sono qui fuori che vi osservo dallo spioncino, » fu invece la frase di commiato della guardia penitenziaria. Mi accorsi che l'esame di stato non mi aveva reso differente dal procuratore legale che aveva messo piede per la prima volta in un carcere. Il brivido che m'aveva percorso la schiena la prima volta che avevo incrociato con lo sguardo gli occhi di un assassino s'era ripetuto uguale e identico. Era l'ennesima replica dello stesso spettacolo che andava in scena ogni volta la mia carriera incocciava con quella di uno di questi “mostri” da prima pagina.

Quel brivido nasceva dal fatto che riconoscevo in loro l'essere umano che era in me e in centinaia di altre persone che ogni giorno incrociavo per strada. Volti imperscrutabili dietro i quali, a volte, si celavano menti criminali intente a pianificare i loro delittuosi piani.

Nelle mie convinzioni una cosa, di sicuro, differenzia l'essere umano dagli animali: la volontarietà nel condurre le proprie azioni criminali. Eppure, spesso, nello svolgimento della mia prassi giuridica, mi sono arroccato nella teoria che non vi fosse premeditazione, che il tutto fosse dovuto ad un raptus, ad un momento di obnubilazione dei sensi e della ragione, ma sinceramente non so quanto io creda a tutto questo, perché mai nella mia vita m'era capitato di fare confusione tra realtà – intesa come succedersi di eventi razionali – e istinto – inteso come inclinazione naturale a lasciare un sentiero per precipitare in un burrone.

CONTINUA